Claudio Fezza

Summer simphony - Acquerello su tavola - cm 109x61
Summer Symphony – cm 109×61

Un esplosione di colori, finalmente è arrivata la nostra estate.

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Claudio Fezza.

Fezza nasce a Roma il 30 giugno 1950. Conseguito il diploma alle Scuole Superiori presso l’Istituto Tecnico della sua città, inizia la sua attività lavorativa, nel 1970, presso un Istituto di Credito Romano che lo porterà ad occuparsi di intermediazione finanziaria. La curiosità e la pratica artistica lo appassionano sin dall’adolescenza portandolo a seguire già in tenera età corsi per formare e arricchire il suo talento, seguitano così numerose frequentazioni a corsi di pittura e modellazione dell’argilla. La prima uscita come artista risale alla primavera del 1995 presso il Teatro Nazionale di Roma dove era stata organizzata una mostra collettiva dedicata alla pittura e scultura. Nel 1996 conclude il suo mandato finanziario e si ritira in una località marittima della costa Cilentana, Pisciotta, un antico borgo medievale che si affaccia al suggestivo e magico mare di Palinuro. Nel 2002 espone in una mostra personale a Palazzo Alario, antica residenza nobiliare della vicina cittadina di Marina di Ascea. Affascinato, avvolto e stordito dall’immensa bellezza della sua nuova patria di adozione, si opera a far conoscere turisticamente in Italia e all’estero questa meravigliosa antica terra di Ulisse, nonché sede filosofica greca facente capo al filosofo Parménide di Elea. Dal suo trasferimento in questa incantevole terra la sua attività artistica si intensifica dando spazio ai colori, ai profumi e alle forme della terra,del mare e del cielo. Crea un personale laboratorio di pittura e scultura immerso in un suggestivo uliveto secolare posizionato a poca distanza rispetto al mare, l’ambiente così “confezionato” stimola costantemente e nutre l’attimo creativo oltre che l’anima dell’artista. Numerosi sono i progetti cui Claudio Fezza sta lavorando sia come artista indipendente che non. E’ apprezzato da fruitori e critica.

Critiche

Fantastico è il frutto dei voli del pensiero che decide di non volere
restare nel regno delle possibilità, ma di volersi dare, di darsi, un
perimetro sempre dilatabile e un area sempre in mutamento, ma
che pure stabilisce le tappe della propria visibilità, senza un piano
stabilito di significanti e di significati, come ha insegnato per
primo Pindaro, quando l’ha rilevata dal fondo delle potenzialità e
l’ha elevata al rango di forza teatrante, che non s’accontenta
di insistere come interiorità e intimità, ma di esistere come
paesistica, come architetturale, come mimesi rovesciata che ha
il compito moderno di avvenire, in continuazione, come una
metamorfosi che si adatta, si adegua, si camuffa, si traveste
come avviene su ogni palcoscenico, anche durante le prove, quando
non c’è pubblico e le luci della ribalta sono basse. Eppure ogni
immagine, ogni volto, ogni parola, ogni cosa, sembra ascendere al
rango diverso, quello che una volta chiedeva contemplazione e oggi emozione.
Reale, non realistico perché non è fotografico, non è mai
mimetico, frutto di una elaborazione personale, che come tale
non è omologabile, perché non appartiene alla quantità che
si aggrega, ma alla qualità che avendo sempre l’enigma come
insegna, è un unicum in qualche modo, anche se ognuno può
vederci quello che vuole, senza per questo rischiare l’errore, perché
è come la “tempesta” di Giorgione, in cui cento fiori sono sbocciati
e cento scuole hanno gareggiato, senza per questo avere vinto o perso,
perché è questo il destino della pittura, un dilemma, un nodo gordiano.
Immensità, come alveo amniotico dove si può trovare tutta
la vita che si vuole, in una densità, in una compattezza che si
autoalimenta, facendo luogo ad una espansione, ad una forte
dilatazione che è originata da un forte tasso di fluidità che
invade ogni dove, facendo dell’uno il tutto e del tutto una forza
dolce senza impatti da espressionismo astratto, che qui non ci sono,
quanto una mobilità molecolare, che man mano avanza, non si
impoverisce, ma diviene sempre più ricca dei modi, delle maniere, dei piani.
Natura e Cultura, come soggetti e non come oggetti, anche
se poi non c’è mai una certezza di determinanti e tutti possono
essere soggetti per se stessi e oggetti per gli altri, con una dualità
irrisolta specie quando ci rifacciamo alla natura, come se potesse
esistere una assolutezza, mentre cambia continuamente il concetto
di cultura e di ogni possibile riferimento alla “cosiddetta” natura, perché
tutto è opera di un modo di vedere che, da Parrasio giunge fino
a Giotto, da Carlo Crivelli fino a Morandi, per arrivare ai nostri
Music, Mucchi, Calabria e alle vorticose acrobazie di un Vedova.
Questo per dire che in Claudio Fezza c’è tanto di conscio e inconscio,
di palese ed occulto che ne fanno una singolare pienezza, i cui
dubbi e perplessità sono espressioni di una bella vitalità che qui
voglio sottolineare, infrangendo per un attimo il suo mondo
di solitudine, che non è fatto dal non volere ascoltare gli altri,
da non volerli vicini, ma del volere ascoltar se stesso e vicino a se stesso.
Paesaggi senza territorio, si potrebbe dire con una formula
contraddittiva che però emerge spontanea da questo susseguirsi
di terre che sembrano cieli e cieli che sembrano terre, in una
bella tenzone di trasfigurazione, in cui le citazioni, che
siano autorali o naturali, svolgono il ruolo di spettacolarità
diffusa, senza momenti di sosta, perché non c’è un centro e
non c’è una periferia, ma una distillazione di barocchismo
senza interruzione, in una diffusività penetrante, come una
magmaticità che rende una omogeneità momentanea che non
annulla l’orogenesi originaria, ma anzi rende quel movimento
(falso movimento, si direbbe in linguaggio teatrale) per cui è come avere
davanti una coralità da cappella rinascimentale, di acuti e gravi.
Luogo magico del meraviglioso, senza aspettarsi fuochi
di artificio e sbalordimenti, quanto piuttosto, una dolce frequenza
di affermazioni, che ne fanno riconoscere il timbro personale, così
come le variazioni giocano un ruolo ludico, quello di tenere vigile
il senso dell’attenzione, perché c’è sempre un quid che si svela
Politonia e tendenza monocromatica, come una tensione
che si distende nella corporeità dilatata delle opere, in un
continuo sviluppo tematico, per cui ogni spunto, ogni
piano, diventano avvolgimento poetico, che parte da una nota, da
una forma che si trasforma in una diversità che non perde
mai il proprio nucleo fondante, che è dato dalla personalità
dell’artista, dell’autore, del pittore che è immerso in un
proprio lirium che è fatto di una psicologia, di una storia,
di una forza, in cui sono contenute tutte le complessità
di un innamoramento fatto di tante seduzioni, di tante e tante
fascinazioni, che non s’avvertono, striature, strappi, ma appare
il tutto come un grande arazzo, i cui frammenti senton
l’afflato dell’insieme, ma anche la forza di vivere uno per uno.
Riflessione  come grande specchio frantumato, eppure
integro nella sua qualità di essere un concavo della rifrazione
e convesso nella corrispondenza dei temi e dei sentimenti
che detta la mente, batte il cuore, guida la mano e poi si offre
al convivio degli sguardi, delle possessioni, per dare motore
ad un immobile, per dare tangibilità alla trasparenza, che
nel farsi attraversare, ti suggerisce cose immaginate da
suggerimenti che erano rimasti nascosti e che senza un pretesto
(questo) non sarebbero emersi, per cui queste opere hanno
una maieutica intrisa di magia  che fa diventare poematica,
quella che altrimenti sarebbe una semplice alfabetica, facendo
un grande panegirico che rende leggerezza, sofficità, permeabilità.
Tra presenza e assenza come dire, in una eterna transicità,
dove il tempo presente è il grande enigma che fa pesare la bilancia,
ora da una parte ora dall’altra, dal piatto alla pesantezza
dell’esserci, del contare le ore, dell’attraversare le forme del contenuto,
dirigendosi verso l’inesorabile, verso l’enigma della fine, che può
avvenire da un momento all’altro, oppure postergarsi nel futuro
anteriore, lasciando le tracce, le orme, i segnali, di una possessione
che sente di divina grammatica e di sublime sintassi. Tutto
questo mentre si sente urgente la forza dell’assenza che vuol
dire sperimentazione, desiderio di essere in una solitudine dove
(puoi e vuoi) sentire, vedere, fare, come se nient’altro esistesse,
ma tutto fosse filiazione di una metafora in cui il silenzio è
una plenitudine a rovescio, le tenebre sono il nero dello stacco
tra una luce e l’altra e non c’è mai un exultet definitivo
ma una infinita contemplazione che si allunga come la linea
dell’orizzonte che, lusinga, lusinga,ma è sempre un’altra parte,
un’altra cosa, un altro sogno, in cui mettere ancora segni e colori.
Astrazione sempre al limite, sempre sulla soglia di una
frontiera in cui può esserci o non esserci una figurazione,
seppure sempre in suggerimento in scivolamento e mai in
una aggressiva pretestuosità, perché la regola non è quella del
segno colorato, della scissura, ma quella della sfumatura, della
tonalità che qui assorbe e qui deborda, passando come di
paragrafo in paragrafo, di capitolo in capitolo, verso il grande
libro della propria vita, di cui Claudio Fezza è autore ricercato
puntuale, anche quando appare veloce e gestuale, sempre, in una giusta misura.
Avvolgimento poetico, dove il caso e la necessità, si scambiano
i ruoli nella superficie e nel profondo delle opere, faczndo trasparire
il senso della vera religiosità, in cui niente viene escluso
a priori, anzi tutto è coinvolto senza apparire, perché non è
l’apparenza che qui conta, anche se tutto e per tutti è necessario
in sembiante, che superi d’incanto la fantasmaticità, dando corpo
ad un universo panico, per mezzo di un vedere, che è saper vedere.
Continuità con le origini delle forme e dei colori , senso
di immersione nel tempo senza tempo, nello spazio senza spazio,
in una dialettica d’immaginario e in una ondulazione di
sentimento che coinvolge tutti i sensi, facendoli agire come in
una concertazione in cui la pluralità, la moltiplicazione, la varietà,
tende a convertirsi in una simbolicità, in cui l’apparenza è la
forma mimetica di Apollo vestito da Dioniso e Dioniso che sembra Apollo.

Francesco Gallo Mazzeo

L’inquietudine umana, acque arie e terre dello spirito.
Claudio Fezza non è soltanto un pittore, quando un drammaturgo che usa meravigliosamente, le sfumature infinite dei colori; non è solo un drammaturgo, ma un poeta che, alla ricerca di se stesso, si addentra con circospezione in quella parte più segreta del cuore. Una curiosità insaziabile e inarrestabile lo spinge proprio ove s’annida il tormento, ove s’agitano le acque apparentemente chete del dramma più antico che attanaglia l’umanità.
E’ qui che l’artista sperimenta e ricerca, fra il chiaro scuro della psiche, nella rete dell’inquietudine dei taciturni e dei solitari. Egli alla maniera di Gauguin è sedotto dal pensiero dei filosofi: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”. Ed ecco, allora, che nell’adagio armonico delle sue pennellate si appalesano e, prendono forma, le sue riflessioni appassionate sull’esistenza.
L’idea e poi la realizzazione di ogni paesaggio è il vestibolo del testamento spirituale dell’artista, è una summa meditata accuratamente, l’amalgama rilucente che riassume le sue ricerche cromatiche, il frontespizio pregiato della sua espressione pittorica.
Le visioni di Fezza sono una grande tavola narrativa, un garbato diario intimo sulla sofferenza e sugli interrogativi senza risposta dell’umanità. Claudio Fezza ha scelto una strada insidiosa, ha abbracciando il dolore del mondo, lo ha introiettato dentro il suo spirito e, per questo, oggi continua a portarne addosso il suo peso, come la croce di Cristo.
Un quaderno pregiato da interpretare con cura, verso ogni opera si compie un viaggio, la bussola spinge l’occhio verso una rotta seducente e discreta che conduce sicuramente verso nuovi pianeti e modi lontani; ma anche verso approdi ove si può ritrovare se stessi. Nel cammino, chi sa osservare bene, riesce a intuirne le energie e carpire i segreti dei codici e la letteratura dei suoi messaggi nascosti.
Per compiere il viaggio basta lasciarsi trascinare, una forza calda ci conduce lontano, il cuore palpita e le emozioni incalzano, l’opera è una scoperta continua, ci si ritrova fra cieli ingrigiti, nella stanchezza dell’esistenza e, in quello specchio ondulante delle acque increspate, quando la brezza notturna dalla terra agita il mare.
La sua narrazione ci riporta all’inquietudine di Fernando Pessoa; il pittore come il poeta ci parla delle nostre ansie, delle angosce, delle cose che non vogliamo sentire che non vogliamo vedere.
La sua luce soffusa riesce ad illuminare e scoprire gli angoli più bui della nostra vita, sono quelli gli angoli ove abbiamo relegato tutto il “male del mondo”, proprio quei posti che – nella maggior parte delle volte – per timore o per pusillanimità, nascondiamo prima noi stessi rifuggendoli con il nostro sguardo e, poi, col cercare di nasconderli comunque all’umanità.
E’ sempre difficile sedare il dolore, spegnere l’ansia, placare il turbamento dell’anima; il dolore ci affligge comunque, continua inesorabilmente a scandire l’esistenza di ognuno di noi. E’ come un inarrestabile, infallibile orologio cosmico, dritto difronte alla nostra nudità e alla nostra solitudine. Proprio lì innanzi allo specchio che riflette noi stessi, così – per dirla con il poeta lusitano – ci ritroviamo ad essere “isole, isole perdute nel mare della vita”!
Lo smarrimento spirituale di Claudio Fezza è intriso di afflizioni lontane, a volte la mano stessa del pittore sembra sia guidata da una entità sconosciuta, c’è l’azione di un suggeritore che è fonte di ispirazione e di intercessione verso altri mondi, verso altre ere, verso altri personaggi; succede all’artista, proprio come accade a Bernardo Soares, di sentirsi “come un essere di un’altra esistenza che passa”.
Fezza, incarna la forza dell’inquietudine, – egli fa sua la logica di Kafka – si nutre di questo pensiero agitato che diventa energia attiva, che concima il pensiero e fa fervido il presente, il pittore preferisce il tormentato cammino, all’assenza di ogni dramma terreno, perché sa che lì non esiste creatività, ne moto, ma solo inerzia e morte.
L’arte senza inquietudine – ha scritto Francesco De Sanctis – non è vita senza inquietudine, non è un territorio di esercizio passivo, ma un luogo attivo, non un luogo di consolazione, ma di crisi… l’inquietudine è l’inizio del cammino faticoso verso la leggerezza e la semplicità; per le angosciose stazioni del Calvario passa necessariamente la pesantezza e la complessità, ma è proprio compiendo questo sforzo sovrumano, questa estenuante fatica, che si forgia il vero artista e, attraverso il sudore c’è il suo approdare fuori dalle terre dell’ovvio, tutt’altra direzione, lontano da quell’arte ripetitiva e senza sostanza.
“La strada sarebbe stata lunga. Sono lunghe tutte le strade che conducono a tutto ciò che il cuore brama. Ma questa strada l’occhio della mia mente la poteva vedere su una carta, tracciata professionalmente, con tutte le complicazioni e le difficoltà, inquietudini, eppure a suo modo semplice. O si è marinaio o non lo si è. Ed io di esserlo avevo dubbi.” (*)
Frezza ha il carattere dell’introverso, ha la tranquillità e la ricchezza dell’introverso; per questo ha scelto la pittura per ritrovarsi e per conoscersi; si trova a proprio agio nella solitudine contemplativa e intima. Il suo è un modo sofferto di strofinare il proprio cervello con l’umanità di questi anni, per questo ha anche disegnato, costruito e arredato i suoi insoliti spazi con “cura materna”, proprio come la rondine agghinda il nido; il pittore ha organizzato bene la propria indipendenza, ed è riuscito a dominare il regime del tempo.
Oggi il suo sguardo e la sua mente hanno spazi e tempo per la concentrazione e la preghiera, al fine di riconnettersi ad una superiore spiritualità.
“Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero artefice ti plasmassi e ti scolpissi né la forma che avresti prescelto.
Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine” (**)

Rosario Sprovieri per Claudio Fezza

Roma 24 Maggio 2018

note
(*) Joseph Conrad, La linea d’ombra
(**) Giovanni Pico Della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, 1486

Il percorso artistico di Claudio Fezza lo vede impegnato intensamente e per lungo tempo nei confronti delle arti plastiche e pittoriche, rivolgendo la sua attenzione a queste espressioni in base alle esigenze del momento. Sicuramente, il prolungato periodo riservato alla scultura lo porta a trattare diversi temi, egli offre particolare attenzione alla figura umana che lo forma profondamente nei campi della proporzione e della prospettiva, la sperimentazione e lo studio del corpo umano e della luce che scorre sulle morbide superfici plasmate, lo aiuterà successivamente a catturare anche in pittura le giuste tonalità e l’antico gioco di luci e ombre.

I mezzi busti dedicati ed elaborati con esemplare gentilezza ai volti di donna, o la pura attenzione rivolta ai corpi teneramente adagiati, anche provocatori, ma pur sempre ritratti da normali atteggiamenti quotidiani, o i fisici leggermente coperti da veli, drappeggiati con estrema raffinatezza, si muovono in un intimo percorso di apprendimento e curiosità personale dell’artista nei confronti della materia e dei soggetti designati ad essere trasferiti poi in opera d’arte.

La nascita di un’opera figurativa inizia sempre con un cammino di investigazione e principalmente di indagine rivolto all’espressione corporea, si eviscera così nella galleria del Maestro il concetto di maternità, di poesia e di vita quotidiana riservato principalmente al mondo femminile.

Le figure così rappresentate incarnano la figura umana con i suoi sentimenti e le sue tensioni. Il particolare non viene trattato con l’attenzione dello scultore iperrealista, ma lascia spazio a “pelle liscia” concentrando la massima attenzione alle giuste proporzioni e alla grande espressione del movimento del corpo con le sue torsioni e tensioni interne.

L’arte di Fezza racconta i sentimenti e l’intima conoscenza che egli nutre nei confronti dell’essere umano. E’ il corpo trattato con soggettiva percezione che spicca come principale studio, con le sue morbide forme, sporgenze evidenti, ma non troppo accentuate, dei muscoli e gli individuali movimenti che deve esprimere, l’opera parla di sé e conseguentemente comunica al fruitore quella sensibilità che l’ha plasmato.

Si raggiunge così un’eleganza essenziale e senza fronzoli, che esprime attraverso i suoi volumi solidi e pieni, misura ed equilibrio.

L’osservazione della realtà e la conseguente trasformazione del soggetto prescelto in opera d’arte, mantiene l’essenza della sua fisicità e si carica di una spiritualità quasi arcaica, lo stesso spirito che vuole librarsi, uscire dalla materia trovando il suo equilibrio raffinato fatto da masse volumetriche fermate dall’abile mano dello scultore nell’attimo sottile che precede l’azione del creare.

Lo sviluppo delle forme artistiche portate avanti con estrema effervescenza creativa dall’artista vede svilupparsi, paripasso con la scultura, anche la pittura.

Il Maestro inizialmente sperimenta varie tecniche come l’olio, ma raggiunta la maturità e soprattutto capita la personale necessità tecnica per arrivare alla massima espressione pittorica, designa all’acquerello lo sviluppo della sua galleria artistica. Catturati i vari accorgimenti per dominare questa difficilissima tecnica artistica e utilizzando soprattutto un supporto inusuale per l’acquerello come: una tavola di legno preziosamente trattata con gesso e vernice bianca stabilizzante, Fezza produrrà una ricca ed eccellente galleria di quadri dedicati in particolare alla natura.

Di certo il luogo meraviglioso che circonda e ospita l’artista diventa musa ispiratrice per lo sviluppo delle tematiche trattate nei quadri, il concetto di Natura Madre viene però ampliato e va a catturare intensi e intimi dialoghi personali e profonde riflessioni sull’attualità dello stato della Natura e dei suoi esseri viventi. La tavolozza è ricca dei colori caldi della terra del sud che trovano alcune volte riposo nel colore del mare e rispecchiano l’antica legge accademica dell’inserire sempre un colore caldo in una stesura di colori freddi e viceversa dando modo all’occhio di riposare. Il soggetto principale a cui è designato lo svolgimento e la nascita di una qualsiasi elaborazione delle tematiche trattate dall’artista è il mare, gli oceani primordiali costituiscono le prime luci dell’alba, da lì nasce tutto come è nata la vita stessa, li risiede la culla dello sviluppo dell’esistenza, li è custodito il tesoro, il soffio di vita, il mare è mistero e i suoi abitanti, come ad esempio i pesci, che troviamo come simbolo sovente in molte realizzazioni di Fezza, diventano il simbolo stesso di una natura vergine originaria, non sono i pesci dell’arcaico simbolismo del cristianesimo, ma nonostante egli nutra una profonda fede, decide di attribuire a queste figure, attraverso un’espressione laica, una forza simbolica che va oltre il suo credo. L’arte di Fezza vuole anche denunciare l’intervento ripetuto e l’inquinamento antropico dell’uomo risultato a danno della natura. La violazione aggressiva provocata per sua mano lede le antiche regole ed equilibri della Natura e” l’urlo” del Maestro è dedicato ad un’insistente denuncia all’invasività data dallo sfruttamento umano distruttivo delle risorse di essa, senza la minima contemplazione della regola del reciproco rispetto.

A far ancor più forza al suo messaggio di disapprovazione vengono talvolta inserite nelle composizioni delle foglie, emblematico è quel quadro che ne contiene quattro atte a simboleggiare i quattro punti cardinali a significare che quest’offesa della natura è purtroppo prassi e protocollo universale. Il coinvolgimento emotivo e, al contempo, di conoscenza razionale è quello di una realtà che spesso guardiamo, ma non vediamo.

Ogni qualvolta l’uomo entra in contatto con la natura dovrebbe provare quel rispetto sacro che gli deriva dal fatto, certamente ancestrale, ma oggettivo, di essere parte di un comune Creato.

A seguito di questo mutamento della relazione uomo-natura è cambiata la capacità di renderci conto degli oltraggi che ogni nostro comportamento – a volte anche minimo – può produrre in un ambiente integro. La terra, l’acqua, l’aria vengono spesso percepiti da noi tutti come qualcosa di scontato che esiste a prescindere da noi, un dono remoto di Dio o della casualità del Big Bang. Si può dedurre che il messaggio principale di Fezza sia quello di imparare a vivere la natura per ciò che è, nella sua bellezza originale, senza esigere di modificarla più del necessario per renderla a noi ospitale. Si necessità così di ripartire sempre dall’educazione che è cultura.

I paesaggi visti così come luoghi evocatori di stati d’animo, di pensieri e profonde meditazioni giuocano e si alternano tecnicamente da espressioni accennate figurative a elaborazioni informali, essi rispecchiano sempre le ondulazioni creative e di battito creativo primordiale del Maestro.

A volte le stesse elaborazioni ricordano illustrazioni rupestri o studi di cromie che, grazie alla tecnica dell’acquerello, creano sfumature di ineguagliabile fattura. Gli sfondi creati per accettare sovente la simbologia propria dell’autore sono profondamente equilibrati e non invadono mai la parola data agli elementi principali del messaggio. L’arte di Fezza è equilibrio, armonia e delicato incanto dettato dal profondo rispetto dell’artista nei confronti di chi lo ospita e lo rende partecipe al suo splendore.

Raffaella Ferrari
Critico d’arte