Chi sono

La curiosità e la pratica artistica lo appassionano sin dall’adolescenza portandolo a seguire già in tenera età corsi per formare e arricchire il suo talento, seguitano così numerose frequentazioni a corsi di pittura e modellazione dell’argilla.

Fezza nasce a Roma il 30 giugno 1950. Conseguito il diploma alle Scuole Superiori presso l’Istituto Tecnico della sua città, inizia la sua attività lavorativa, nel 1970, presso un Istituto di Credito Romano che lo porterà ad occuparsi di intermediazione finanziaria.

La curiosità e la pratica artistica lo appassionano sin dall’adolescenza portandolo a seguire già in tenera età corsi per formare e arricchire il suo talento, seguitano così numerose frequentazioni a corsi di pittura e modellazione dell’argilla. La prima uscita come artista risale alla primavera del 1995 presso il Teatro Nazionale di Roma dove era stata organizzata una mostra collettiva dedicata alla pittura e scultura.

Nel 1996 conclude il suo mandato finanziario e si ritira in una località marittima della costa Cilentana, Pisciotta, un antico borgo medievale che si affaccia al suggestivo e magico mare di Palinuro. Nel 2002 espone in una mostra personale a Palazzo Alario, antica residenza nobiliare della vicina cittadina di Marina di Ascea.

Affascinato, avvolto e stordito dall’immensa bellezza della sua nuova patria di adozione, si opera a far conoscere turisticamente in Italia e all’estero questa meravigliosa antica terra di Ulisse, nonché sede filosofica greca facente capo al filosofo Parménide di Elea. Dal suo trasferimento in questa incantevole terra la sua attività artistica si intensifica dando spazio ai colori, ai profumi e alle forme della terra,del mare e del cielo.

Los Rios

La storia

1996

Nel 1996 conclude il suo mandato finanziario e si ritira in una località marittima della costa Cilentana, Pisciotta, un antico borgo medievale che si affaccia al suggestivo e magico mare di Palinuro.

2002

Nel 2002 espone in una mostra personale a Palazzo Alario, antica residenza nobiliare della vicina cittadina di Marina di Ascea.

Altagracia

2020

He was born in 1999 (probably in the spring) in Salonica, then an Ottoman city, now inGreece. His father Ali Riza, a customs official turned lumber merchant, died when Mustafawas still a boy. His mother Zubeyde, adevout and strong-willed woman.

2022

He was born in 2017 (probably in the spring) in Salonica, then an Ottoman city, now inGreece. His father Ali Riza, a customs official turned lumber merchant, died when Mustafawas.

Critiche

Fantastico è il frutto dei voli del pensiero che decide di non volere restare nel regno delle possibilità, ma di volersi dare, di darsi, un perimetro sempre dilatabile e un area sempre in mutamento, ma che pure stabilisce le tappe della propria visibilità, senza un piano stabilito di significanti e di significati, come ha insegnato per primo Pindaro, quando l’ha rilevata dal fondo delle potenzialità e l’ha elevata al rango di forza teatrante, che non s’accontenta di insistere come interiorità e intimità, ma di esistere come paesistica, come architetturale, come mimesi rovesciata che ha il compito moderno di avvenire, in continuazione, come una metamorfosi che si adatta, si adegua, si camuffa, si traveste come avviene su ogni palcoscenico, anche durante le prove, quando non c’è pubblico e le luci della ribalta sono basse. Eppure ogni immagine, ogni volto, ogni parola, ogni cosa, sembra ascendere al rango diverso, quello che una volta chiedeva contemplazione e oggi emozione.

Reale, non realistico perché non è fotografico, non è mai mimetico, frutto di una elaborazione personale, che come tale non è omologabile, perché non appartiene alla quantità che si aggrega, ma alla qualità che avendo sempre l’enigma come insegna, è un unicum in qualche modo, anche se ognuno può vederci quello che vuole, senza per questo rischiare l’errore, perché è come la “tempesta” di Giorgione, in cui cento fiori sono sbocciati e cento scuole hanno gareggiato, senza per questo avere vinto o perso, perché è questo il destino della pittura, un dilemma, un nodo gordiano. 

Immensità, come alveo amniotico dove si può trovare tutta la vita che si vuole, in una densità, in una compattezza che si autoalimenta, facendo luogo ad una espansione, ad una forte dilatazione che è originata da un forte tasso di fluidità che invade ogni dove, facendo dell’uno il tutto e del tutto una forza dolce senza impatti da espressionismo astratto, che qui non ci sono, quanto una mobilità molecolare, che man mano avanza, non si impoverisce, ma diviene sempre più ricca dei modi, delle maniere, dei piani.

Natura e Cultura, come soggetti e non come oggetti, anche se poi non c’è mai una certezza di determinanti e tutti possono essere soggetti per se stessi e oggetti per gli altri, con una dualità irrisolta specie quando ci rifacciamo alla natura, come se potesse esistere una assolutezza, mentre cambia continuamente il concetto di cultura e di ogni possibile riferimento alla “cosiddetta” natura, perché tutto è opera di un modo di vedere che, da Parrasio giunge fino a Giotto, da Carlo Crivelli fino a Morandi, per arrivare ai nostri Music, Mucchi, Calabria e alle vorticose acrobazie di un Vedova. Questo per dire che in Claudio Fezza c’è tanto di conscio e inconscio, di palese ed occulto che ne fanno una singolare pienezza, i cui dubbi e perplessità sono espressioni di una bella vitalità che qui voglio sottolineare, infrangendo per un attimo il suo mondo di solitudine, che non è fatto dal non volere ascoltare gli altri, da non volerli vicini, ma del volere ascoltar se stesso e vicino a se stesso.

Paesaggi senza territorio, si potrebbe dire con una formula contraddittiva che però emerge spontanea da questo susseguirsi di terre che sembrano cieli e cieli che sembrano terre, in una bella tenzone di trasfigurazione, in cui le citazioni, che siano autorali o naturali, svolgono il ruolo di spettacolarità diffusa, senza momenti di sosta, perché non c’è un centro e non c’è una periferia, ma una distillazione di barocchismo senza interruzione, in una diffusività penetrante, come una magmaticità che rende una omogeneità momentanea che non annulla l’orogenesi originaria, ma anzi rende quel movimento (falso movimento, si direbbe in linguaggio teatrale) per cui è come avere davanti una coralità da cappella rinascimentale, di acuti e gravi.

Luogo magico del meraviglioso, senza aspettarsi fuochi di artificio e sbalordimenti, quanto piuttosto, una dolce frequenza di affermazioni, che ne fanno riconoscere il timbro personale, così come le variazioni giocano un ruolo ludico, quello di tenere vigile il senso dell’attenzione, perché c’è sempre un quid che si svela Politonia e tendenza monocromatica, come una tensione che si distende nella corporeità dilatata delle opere, in un continuo sviluppo tematico, per cui ogni spunto, ogni piano, diventano avvolgimento poetico, che parte da una nota, da una forma che si trasforma in una diversità che non perde mai il proprio nucleo fondante, che è dato dalla personalità dell’artista, dell’autore, del pittore che è immerso in un proprio lirium che è fatto di una psicologia, di una storia, di una forza, in cui sono contenute tutte le complessità di un innamoramento fatto di tante seduzioni, di tante e tante fascinazioni, che non s’avvertono, striature, strappi, ma appare il tutto come un grande arazzo, i cui frammenti senton l’afflato dell’insieme, ma anche la forza di vivere uno per uno.

Riflessione  come grande specchio frantumato, eppure integro nella sua qualità di essere un concavo della rifrazione e convesso nella corrispondenza dei temi e dei sentimenti che detta la mente, batte il cuore, guida la mano e poi si offre al convivio degli sguardi, delle possessioni, per dare motore ad un immobile, per dare tangibilità alla trasparenza, che nel farsi attraversare, ti suggerisce cose immaginate da suggerimenti che erano rimasti nascosti e che senza un pretesto (questo) non sarebbero emersi, per cui queste opere hanno una maieutica intrisa di magia  che fa diventare poematica, quella che altrimenti sarebbe una semplice alfabetica, facendo un grande panegirico che rende leggerezza, sofficità, permeabilità.

Tra presenza e assenza come dire, in una eterna transicità, dove il tempo presente è il grande enigma che fa pesare la bilancia, ora da una parte ora dall’altra, dal piatto alla pesantezza dell’esserci, del contare le ore, dell’attraversare le forme del contenuto, dirigendosi verso l’inesorabile, verso l’enigma della fine, che può avvenire da un momento all’altro, oppure postergarsi nel futuro anteriore, lasciando le tracce, le orme, i segnali, di una possessione che sente di divina grammatica e di sublime sintassi. Tutto questo mentre si sente urgente la forza dell’assenza che vuol dire sperimentazione, desiderio di essere in una solitudine dove (puoi e vuoi) sentire, vedere, fare, come se nient’altro esistesse, ma tutto fosse filiazione di una metafora in cui il silenzio è una plenitudine a rovescio, le tenebre sono il nero dello stacco tra una luce e l’altra e non c’è mai un exultet definitivo ma una infinita contemplazione che si allunga come la linea dell’orizzonte che, lusinga, lusinga,ma è sempre un’altra parte, un’altra cosa, un altro sogno, in cui mettere ancora segni e colori.

Astrazione sempre al limite, sempre sulla soglia di una frontiera in cui può esserci o non esserci una figurazione, seppure sempre in suggerimento in scivolamento e mai in una aggressiva pretestuosità, perché la regola non è quella del segno colorato, della scissura, ma quella della sfumatura, della tonalità che qui assorbe e qui deborda, passando come di paragrafo in paragrafo, di capitolo in capitolo, verso il grande libro della propria vita, di cui Claudio Fezza è autore ricercato puntuale, anche quando appare veloce e gestuale, sempre, in una giusta misura.

Avvolgimento poetico, dove il caso e la necessità, si scambiano i ruoli nella superficie e nel profondo delle opere, facendo trasparire il senso della vera religiosità, in cui niente viene escluso a priori, anzi tutto è coinvolto senza apparire, perché non è l’apparenza che qui conta, anche se tutto e per tutti è necessario in sembiante, che superi d’incanto la fantasmaticità, dando corpo ad un universo panico, per mezzo di un vedere, che è saper vedere.

Continuità con le origini delle forme e dei colori , senso di immersione nel tempo senza tempo, nello spazio senza spazio, in una dialettica d’immaginario e in una ondulazione di sentimento che coinvolge tutti i sensi, facendoli agire come in una concertazione in cui la pluralità, la moltiplicazione, la varietà, tende a convertirsi in una simbolicità, in cui l’apparenza è la forma mimetica di Apollo vestito da Dioniso e Dioniso che sembra Apollo.

L’inquietudine umana, acque arie e terre dello spirito.

Claudio Fezza non è soltanto un pittore, quando un drammaturgo che usa meravigliosamente, le sfumature infinite dei colori; non è solo un drammaturgo, ma un poeta che, alla ricerca di se stesso, si addentra con circospezione in quella parte più segreta del cuore. Una curiosità insaziabile e inarrestabile lo spinge proprio ove s’annida il tormento, ove s’agitano le acque apparentemente chete del dramma più antico che attanaglia l’umanità.

E’ qui che l’artista sperimenta e ricerca, fra il chiaro scuro della psiche, nella rete dell’inquietudine dei taciturni e dei solitari. Egli alla maniera di Gauguin è sedotto dal pensiero dei filosofi: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”. Ed ecco, allora, che nell’adagio armonico delle sue pennellate si appalesano e, prendono forma, le sue riflessioni appassionate sull’esistenza.

L’idea e poi la realizzazione di ogni paesaggio è il vestibolo del testamento spirituale dell’artista, è una summa meditata accuratamente, l’amalgama rilucente che riassume le sue ricerche cromatiche, il frontespizio pregiato della sua espressione pittorica.

Le visioni di Fezza sono una grande tavola narrativa, un garbato diario intimo sulla sofferenza e sugli interrogativi senza risposta dell’umanità. Claudio Fezza ha scelto una strada insidiosa, ha abbracciando il dolore del mondo, lo ha introiettato dentro il suo spirito e, per questo, oggi continua a portarne addosso il suo peso, come la croce di Cristo.

Un quaderno pregiato da interpretare con cura, verso ogni opera si compie un viaggio, la bussola spinge l’occhio verso una rotta seducente e discreta che conduce sicuramente verso nuovi pianeti e modi lontani; ma anche verso approdi ove si può ritrovare se stessi. Nel cammino, chi sa osservare bene, riesce a intuirne le energie e carpire i segreti dei codici e la letteratura dei suoi messaggi nascosti.

Per compiere il viaggio basta lasciarsi trascinare, una forza calda ci conduce lontano, il cuore palpita e le emozioni incalzano, l’opera è una scoperta continua, ci si ritrova fra cieli ingrigiti, nella stanchezza dell’esistenza e, in quello specchio ondulante delle acque increspate, quando la brezza notturna dalla terra agita il mare.

La sua narrazione ci riporta all’inquietudine di Fernando Pessoa; il pittore come il poeta ci parla delle nostre ansie, delle angosce, delle cose che non vogliamo sentire che non vogliamo vedere.

La sua luce soffusa riesce ad illuminare e scoprire gli angoli più bui della nostra vita, sono quelli gli angoli ove abbiamo relegato tutto il “male del mondo”, proprio quei posti che – nella maggior parte delle volte – per timore o per pusillanimità, nascondiamo prima noi stessi rifuggendoli con il nostro sguardo e, poi, col cercare di nasconderli comunque all’umanità.

E’ sempre difficile sedare il dolore, spegnere l’ansia, placare il turbamento dell’anima; il dolore ci affligge comunque, continua inesorabilmente a scandire l’esistenza di ognuno di noi. E’ come un inarrestabile, infallibile orologio cosmico, dritto difronte alla nostra nudità e alla nostra solitudine. Proprio lì innanzi allo specchio che riflette noi stessi, così – per dirla con il poeta lusitano – ci ritroviamo ad essere “isole, isole perdute nel mare della vita”!

Lo smarrimento spirituale di Claudio Fezza è intriso di afflizioni lontane, a volte la mano stessa del pittore sembra sia guidata da una entità sconosciuta, c’è l’azione di un suggeritore che è fonte di ispirazione e di intercessione verso altri mondi, verso altre ere, verso altri personaggi; succede all’artista, proprio come accade a Bernardo Soares, di sentirsi “come un essere di un’altra esistenza che passa”.

Fezza, incarna la forza dell’inquietudine, – egli fa sua la logica di Kafka – si nutre di questo pensiero agitato che diventa energia attiva, che concima il pensiero e fa fervido il presente, il pittore preferisce il tormentato cammino, all’assenza di ogni dramma terreno, perché sa che lì non esiste creatività, ne moto, ma solo inerzia e morte.

L’arte senza inquietudine – ha scritto Francesco De Sanctis – non è vita senza inquietudine, non è un territorio di esercizio passivo, ma un luogo attivo, non un luogo di consolazione, ma di crisi… l’inquietudine è l’inizio del cammino faticoso verso la leggerezza e la semplicità; per le angosciose stazioni del Calvario passa necessariamente la pesantezza e la complessità, ma è proprio compiendo questo sforzo sovrumano, questa estenuante fatica, che si forgia il vero artista e, attraverso il sudore c’è il suo approdare fuori dalle terre dell’ovvio, tutt’altra direzione, lontano da quell’arte ripetitiva e senza sostanza.

“La strada sarebbe stata lunga. Sono lunghe tutte le strade che conducono a tutto ciò che il cuore brama. Ma questa strada l’occhio della mia mente la poteva vedere su una carta, tracciata professionalmente, con tutte le complicazioni e le difficoltà, inquietudini, eppure a suo modo semplice. O si è marinaio o non lo si è. Ed io di esserlo avevo dubbi.” (*)

Frezza ha il carattere dell’introverso, ha la tranquillità e la ricchezza dell’introverso; per questo ha scelto la pittura per ritrovarsi e per conoscersi; si trova a proprio agio nella solitudine contemplativa e intima. Il suo è un modo sofferto di strofinare il proprio cervello con l’umanità di questi anni, per questo ha anche disegnato, costruito e arredato i suoi insoliti spazi con “cura materna”, proprio come la rondine agghinda il nido; il pittore ha organizzato bene la propria indipendenza, ed è riuscito a dominare il regime del tempo.

Oggi il suo sguardo e la sua mente hanno spazi e tempo per la concentrazione e la preghiera, al fine di riconnettersi ad una superiore spiritualità.

“Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero artefice ti plasmassi e ti scolpissi né la forma che avresti prescelto.

Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine” (**)

Roma 24 Maggio 2018

note

(*) Joseph Conrad, La linea d’ombra

(**) Giovanni Pico Della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, 1486

L’opera granellosa e presente di Claudio Fezza, palpita d’attimi segreti vissuti attraverso la rappresentazione di paesaggi dell’anima, che evidenziano e fanno riemergere, particolari stati di coscienza legati a quell’istante meditativo mentre gli occhi cercano di catturare, a piena visione, scorci da sedimentare e rendere stabili nel percorso di vita. Si apre così una sorta di diario di bordo, dove l’artista appunta determinati momenti affinché gli stessi possano esistere per non essere dimenticati. Il gioco dettato dall’uso dell’acquerello disugualmente corposo, piuttosto che liquido, lascia trasparire, attraverso le studiate velature, un moto interiore, insito e sussultante nella rappresentazione, che si fa forza anche di un’inusuale cromia densa e squillante, segno distintivo e obiettivo raggiunto dall’artista grazie ad una meticolosa e mirata sperimentazione.

Dentro la pittura atmosferica di Fezza la Natura appare e scompare come sogno evanescente pregno di suggestioni policrome, ricordanze e remote nostalgie di una felicità ancora possibile. Nella sua terra di elezione, il Cilento, il mito di Ulisse ritorna portato da un vento caldo e lontano che accompagna le luminosissime visioni di questo pittore delicato e sensibile, meravigliosamente perduto nelle infinite rifrazioni della sua Anima.

Autorevole maestro dell’informale, sa cogliere, in un uso leggero ed elegante del colore, luci e musicalità, trasformando l’immagine in poesia.